Giornata in ricordo delle vittime delle mafie Intervista a don Ciotti

Don Ciotti, il 21 marzo Libera celebra la Giornata in ricordo delle vittime delle mafie in 4.000 luoghi italiani. La piazza principale è Locri, perché questa scelta?

Per valorizzare il positivo della Calabria. Che c’è ed è tanto, nonostante le presenza del crimine organizzato. C’è una Calabria che non accetta di essere identificata con la ‘ndrangheta, con la massoneria, con la corruzione. Una Calabria fatta di persone oneste, operose, accoglienti, impegnate a costruire speranza e cambiamento in realtà laiche e di Chiesa. Libera è lì per loro, e non occasionalmente. Il legame con molte realtà è di lunga data, come dimostra anche il fatto che per ben tre volte la “Giornata della memoria e dell’impegno” si è svolta in Calabria: a Reggio nel 1998, a Polistena nel 2007 e quest’anno a Locri.

Ogni 21 marzo dal 1996 vengono letti i nomi delle vittime di mafia. Sono quasi mille nomi, di cui nel 70 per cento dei casi ancora non si conosce l’assassino. Chi c’è in piazza ad ascoltare?

C’è un’Italia che si ribella all’indifferenza, al conformismo, alla corruzione che devasta i beni comuni e l’ambiente. Un’Italia consapevole che la convivenza civile e pacifica si fonda sulla giustizia sociale, sulla dignità e la libertà di ogni persona. In questo senso il richiamo alla memoria non è mai stato per Libera un esercizio retorico. Quelle persone non sono morte per una targa, una corona di fiori, un discorso celebrativo. Sono morte per la nostra libertà, per la nostra democrazia, ossia per ideali che abbiamo il compito di realizzare. Solo l’impegno personale e collettivo trasforma la memoria d’occasione, inamidata, in memoria condivisa e pubblica, in memoria viva.

“Luoghi di speranza, testimoni di bellezza”: cosa vuol dire lo slogan che accompagna la giornata delle vittime di mafia di quest’anno?

Che la bellezza è un concetto non solo estetico ma etico. C’è chi dice che il nome Calabria derivi dal greco “kalon brion”, che significa “faccio sorgere il bello”. Ma sappiamo che per i Greci il bello e il bene erano concetti intrecciati, indivisibili, perché l’armonia delle forme si rifletteva nell’armonia di una società governata dalla giustizia, senza soprusi e prevaricazioni. Essere “testimoni di bellezza” vuol dire allora non limitarsi a “contemplare” un ideale di giustizia, ma contribuire a costruirlo con le proprie scelte e i propri comportamenti. La speranza è questo impegno, questa costruzione collettiva.

Lei è a Locri da giorni. Il 19 marzo arriva Mattarella per incontrare i familiari delle vittime. Come è l’atmosfera?

C’è una grande attesa. L’ultima visita di un presidente nella Locride risale a cinquant’anni fa, quando Giuseppe Saragat andò a San Luca per incontrare i famigliari di Corrado Alvaro, il grande scrittore. Ma la presenza di Sergio Mattarella assume per i famigliari delle vittime un significato particolare: nessuno meglio del Presidente – avendole vissute in prima persona attraverso la perdita tragica del fratello – può capire le loro ferite e le loro aspettative. È importante che il 21 marzo sia diventato con voto unanime “Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie”, ma questo non deve far dimenticare che nel 70% dei casi i famigliari delle vittime non hanno saputo la verità né ricevuto giustizia. Come che al riconoscimento morale deve corrisponderne uno materiale e giuridico, sulla base di quelle direttive che, anche a livello europeo, garantiscono norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime e dei loro famigliari.

«I beni sequestrati valgono 25 miliardi, bisogna approvare la riforma» ha detto Rosy Bindi. Ma intanto questa nuova legge è ferma al Senato da mesi. Questo stallo che danni provoca all’Italia?

Un grave danno non solo economico, ma sociale e culturale. Quella che sancisce l’uso sociale dei beni confiscati alle mafie – la legge 106, per la quale Libera indisse nel 1995 una petizione che raccolse oltre 1 milione di firme – è una norma di alta civiltà giuridica perché non solo ripara l’ingiustizia, ma prescrive che dall’ingiustizia riparata nasca una maggiore giustizia. Molti beni confiscati sono diventati veicoli straordinari di responsabilità e cura per il bene comune, nonché strumenti di lavoro, di dignità, di autonomia. E questo in territori anche molto difficili, storicamente soggetti al potere mafioso, alla corruzione e all’arretratezza culturale ed economica che ne derivano. Certo non è sempre stato così, a causa di lungaggini burocratiche o di miopia politica. Perciò ha ragione, Rosy Bindi: vanno approvate con urgenza tutte le riforme necessarie per risolvere quei nodi e colmare quei ritardi, perché quella dei beni di confiscati è una partita di civiltà che non possiamo permetterci di perdere.

Sono cambiati i mafiosi dagli anni 90 ad oggi?
Sono cambiati i mezzi e i metodi, ma non l’essenza delle mafie, che resta la sete di potere, di possesso e di ricchezza. I mafiosi hanno capito prima di molti altri le opportunità di arricchimento offerte dalla globalizzazione, i tanti varchi che si aprivano nella cosiddetta “economia di mercato”, basata sulla sola regola del profitto e sulla falsa idea che la crescita del profitto sarebbe andata a beneficio di tutti. Si è creata così una vasta zona grigia in cui oggi è sempre più difficile distinguere tra criminalità organizzata, criminalità politica e criminalità economica, come risulta anche da certe inchieste in cui i magistrati faticano a individuare la fattispecie del reato, potendo contare su strumenti giuridici istituiti prima ancora che quell’intreccio emergesse con forza. Tutto ciò ha potenziato le mafie, e al tempo stesso permesso loro di esercitare il potere senza ricorrere, salvo casi estremi, alla violenza esplicita. Quelle attuali sono mafie imprenditrici nel senso più ampio del termine. Hanno una “visione” del mercato, una capacità di stabilire relazioni con imprenditori, professionisti, operatori del mondo finanziario, di diversificare gli affari e perseguirli anche senza un diretto controllo del territorio. Sono mafie “normalizzate”, non più un “mondo a parte” ma parte di questo mondo. Col grave rischio di credere che, siccome è diminuito il tasso di violenza sanguinaria, siano più deboli del passato. Per i morti ammazzati che diminuiscono, cresce infatti il numero dei “morti vivi”, delle persone a cui le mafie tolgono speranza, dignità e libertà.

Qual è stato il momento più difficile in tutti questi anni di lotta alle mafie?
Non parlerei tanto di “momenti difficili” quanto del rischio costante di ritenere le mafie una questione esclusivamente criminale, da delegare all’azione della magistratura e delle forze di polizia. Se così fosse, non si capirebbe il perché della loro presenza secolare nel nostro Paese. La verità è che le mafie sono un fatto criminale, ma prima di tutto sociale, culturale e politico. Un fatto che affonda le radici in quella politica che non serve il bene comune, in quella legalità che è strumento di potere e non di giustizia, e in quella mentalità che pensa solo ai propri interessi e che quando vede qualcosa che non va si lamenta ma non fa nulla per farla andare. Cioè un fenomeno prodotto dalla corruzione morale e materiale, che resta il principale problema del nostro Paese. Per uscirne occorre una politica pulita e lungimirante, occorrono leggi che non servano gli interessi di uno o di pochi, ma occorre innanzitutto una rivoluzione culturale, un risveglio delle coscienze. Per questo Libera punta da sempre sulla scuola, sui percorsi educativi. È la conoscenza, la via maestra al cambiamento.
E il suo momento più difficile?

C’è una difficoltà costante che viene dalla coscienza dei limiti. Ti rendi conto spesso di non essere in grado di dare risposte, di non poter fare quello che desideri o di poterlo fare solo in parte. È anche vero, però, che questa consapevolezza è preziosa perché ti aiuta a crescere, a essere umile, a non sentirti mai “arrivato”. Poi ci sono momenti oggettivamente difficili, come è stato quello della condanna a morte di Totò Riina tre anni fa e il conseguente cambiamento del regime di sicurezza a cui sono sottoposto. Ma sono fatti, questi, che in una certa misura metti in conto, mentre è più difficile accettare il fango, le calunnie, le manipolazioni che arrivano da ambiti da cui non te lo aspetteresti. Un fango che non colpisce tanto me, che sono una piccola persona, ma la dignità di migliaia di persone che s’impegnano in Libera e con Libera, e che attraverso Libera – penso soprattutto ai giovani – hanno trovato un mezzo per mettersi in gioco per la giustizia e la democrazia di questo Paese. Quel fango è più pesante delle minacce perché colpisce il loro impegno e le loro speranze di cambiamento.

La parola “antimafia” nel 2017 che significato ha?

“Antimafia” è una parola che necessita innanzitutto di una profonda riflessione, se non di una bonifica. Una parola che in questi anni è stata il paravento di protagonismi, persino di forme di illegalità e di malaffare. Essere contro le mafie dovrebbe essere un fatto di coscienza, non una carta d’identità da esibire quando fa comodo. Sospendiamo la parola antimafia e smaschereremo chi ci ha costruito sopra false reputazioni. Ma lo stesso vale per altre parole, ad esempio “legalità”. Si è fatto della legalità un idolo. Tanti invocano la legalità, ma a troppi piace solo quella legalità che coincide con i loro interessi. Lo stesso vale per “società civile”, che è una parola già vuota di senso, perché una società per definizione è formata da cittadini e dunque “civile”. Se proprio vogliamo dare un attributo alla parola società, che sia “responsabile”. È dal grado di responsabilità che si misura il senso di cittadinanza. Delle parole importanti non bisogna abusare. Quando c’è un abuso, significa che dietro la parola c’è il vuoto. Non si è mai parlato tanto di legalità come in questi vent’anni, e mai il livello di illegalità è tanto cresciuto.