Noi che abbiamo più di 65 anni (e restiamo al vostro fianco)
Gian Mario Ricciardi domenica 10 maggio 2020 Avvenire

Puntano occhi e statistiche su di noi e ci dicono che siamo i ‘vulnerabili’ per eccellenza, ma non è giusto. È vero, non per colpa nostra, abbiamo più di 65 anni; abbiamo lavorato oltre quarant’anni, sognando qualche anno di serenità. Siamo nati negli anni Cinquanta, appena dopo la miseria della guerra, le macerie, il pane nero e l’olio della borsa nera. Siamo figli e figlie di grandi persone, quelle della Ricostruzione. Abbiamo giocato nei cortili pieni di melma, pozzanghere e neve, d’inverno, e straripanti di caldo, d’estate. Lo abbiamo fatto sorridendo alla vita e anche all’ottimismo che non era quello della ragione, ma piuttosto quello di una generazione, la generazione dei padri e delle madri che uscivano dalla guerra, dalla dittatura, dal profumo (solo quello) delle acciughe. Con loro, poi ci siamo inoltrati nel frastuono di valori del consumismo che nasceva e gettava i suoi tentacoli: la prima bicicletta, la Vespa e la Lambretta, poi la mitica Fiat 500. Ma noi siamo andati a scuola portandoci da casa il pranzo al sacco e, ancora, la legna per scaldarci.

È venuto il progresso, poi il miracolo italiano e molto di più. Ma noi, sempre lì, a cercare un lavoro, una laurea, una prospettiva. E abbiamo lavorato, spesso e volentieri, anche il sabato e la domenica, calpestando troppe volte gli affetti di casa, alzandoci alle quattro del mattino, per il primo turno alla Fiat, perché si partiva da Ivrea o da Alba. Quindi è arrivato il benessere e c’è chi ha pensato ad acquistare l’alloggio e, a volte, anche la casetta al mare.

La pensione è stata una conquista dopo anni in cui i politici hanno prima varato pensioni baby e mini senza ritegno e poi stretto i cordoni della borsa in modo indegno. Ma le nostre sono tutte pensioni guadagnate sul campo, con la corsa a fare straordinari per comprare qualcosa di più.

Negli anni in cui, colpevolmente, lo Stato si è dimenticato di larghe fasce di popolazione, ha tagliato i posti in ospedale, quelli negli asili nido, nelle scuole materne, noi siamo stati pronti a colmare con il ‘welfare dei nonni’, le mancanze di strategia di una situazione sociale non gestita con intelligenza. Ancora una volta, di noi hanno approfittato gli speculatori della ‘terza età’, ma intanto con discrezione abbiamo contribuito alla crescita esponenziale del volontariato che ha fatto e fa tanto bene e, piano piano, ha assunto mille forme. Tutti, o quasi, soprattutto coi capelli bianchi.

Ebbene, ciò che abbiamo sentito in questi 60 giorni di ‘isolamento’ non fa onore a nessuno. È vero, così almeno dicono le statistiche, che oltre l’ottanta per cento dei morti per coronavirus ha più di 70 anni. Ma perché mai si potuto pensare di isolarci, chiudendo ancora e solo noi in casa, fino alla fine del 2020? E perché tanti illustri, e poco onorevoli, esperti in Italia e all’estero hanno sostenuto un tale pensiero? Per fortuna, qualche gran giurista, ha ricordato a tutti che questo sarebbe stato un abuso e una violazione della Costituzione. Un consiglio si accetta; un divieto così si respinge. Una società che perde la memoria, scriveva Umberto Eco, perde l’anima. Non deve mai succedere.

Piuttosto pensiamo a quanti, della nostra età, sono morti soli, nel silenzio surreale dei nostri ospedali. È vero, abbiamo paura (più di voi): un timore che a volte ci fa tremare le gambe quando facciamo la spesa. Grazie a chi la fa per noi. Ma no, non accettiamo di essere l’oggetto speciale di questa pandemia. Non è giusto: per ciò che documentano le nostre vite, per la vita stessa, per la dignità. Vogliamo, infatti, al mattino, continuare a prendere metro, auto, tram per coprire i buchi di assistenza ai nipoti quando padri e madri tornano al lavoro. Con la dignità e la tenerezza di sempre.

Continueremo ad affrontare, accanto a ognuno di voi, questa incredibile prova, con tutte le attenzioni dovute ai nostri acciacchi, ma con lo stesso amore e la stessa passione che ha animato le nostre vite e fatto grande l’Italia.